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lunedì 2 maggio 2011

LE DONNE DI CARTA PRESENTANO CARTA DEI DIRITTI DELLA LETTURA

Giovedì 28 Aprile si è tenuto presso il Bibliocaffé Letterario di Roma un incontro dedicato alla presentazione della Carta dei diritti della Lettura da parte dell’Associazione di editori, librai e lettori Donne di Carta con una successiva parte dedicata alla Maratona delle cosiddette Persone Libro.

Le ‘persone libro’ di Donne di Carta rappresentano un gruppo di donne e uomini che si spostano in molteplici città italiane leggendo ovunque, nelle librerie, ma anche in luoghi apparentemente meno legati alla cultura, quali vivai, birrerie, sartorie, piazze, ecc. Il loro obiettivo è quello di difendere il diritto alla lettura e la bibliodiversità. Hanno già ottenuto una medaglia di rappresentanza dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per l’attività di promozione della lettura e si stanno organizzando per presentare al Parlamento Europeo una Carta di diritti, che parte da un rinnovato concetto di analfabetismo.

“Nel mondo attuale, globalizzato e multietnico, muta il concetto stesso di analfabetismo: è analfabeta chi è carente degli strumenti di base: leggere, scrivere e far di conto ma anche chi soffre di ristrettezza e/o di mancanza di relazioni sociali, di stimoli culturali più ampi, di mobilità fisica e mentale, di mezzi di comunicazione diversificati. È analfabeta chi non ha stimoli né strumenti per valutare la bellezza di un’opera d’arte e del quartiere in cui abita. È analfabeta chi dimentica la propria lingua familiare – e il repertorio condiviso di esperienze che sono addensate in quella lingua e che costruiscono il senso di appartenenza a una comunità – e chi non costruisce altre competenze linguistiche per comunicare e per creare altri legami sociali.”

Per continuare la lettura, http://www.deltanews.net/cultura-le-donne-di-carta-presentano-la-carta-dei-diritti-della-lettura-4711287.html.

mercoledì 13 aprile 2011

INTERNATIONAL JOURNALISM FESTIVAL

Presentazione ITalents! L’Italia non sarà più come prima
Presentazione ufficiale alla stampa e al pubblico di ITalents, la prima associazione nata per connettere e promuovere i migliori talenti italiani, ovunque vivano nel mondo. ITalents si configura come un “creative energy accelerator”, per passare “dalla fuga alla circolazione dei talenti”, e   consentire loro di  contribuire -con idee e competenze- al rinnovamento e alla crescita del nostro Paese nella società globale. Italents nasce proprio nell’anno in cui si festeggia il 150° anniversario dell’Unità, con l’ambizione di contribuire a costruire un’Italia Diffusa, dove conta più la rete che i confini, aperta al cambiamento continuo.
Roberto Bonzio giornalista Reuters e fondatore Italiani di Frontiera
Alessandro Rosina Università Cattolica di Milano
Eleonora Voltolina
fondatrice repubblicadeglistagisti.it
Nella totale incapacità del Paese di valorizzare i talenti e investire sui giovani nasce il Manifesto degli espatriati, per rendere l’Italia un paese per giovani. Un Manifesto di denuncia di tutto ciò che in Italia non funziona, impedendo ai giovani di emergere: dai processi selettivi carenti alla gerontocrazia e raccomandazione imperanti, dal Welfare State inesistente per i giovani al ricambio generazionale mancato. Il “Manifesto” mette nero su bianco le cause dell’espatrio di centinaia di migliaia di giovani italiani. Brillanti, ma senza gli “agganci” giusti.
Marco Alfieri La Stampa
Claudia Cucchiarato
freelance L’UnitàLa Repubblica
Stephan Faris Time Magazine
Stefano Feltri Il Fatto Quotidiano
Sergio Nava Radio 24
Claudio Riccio Link

domenica 10 aprile 2011

Diversità sessuali: il-tema discusso a Roma in un convegno sulle discriminazioni

(Roma) “Discriminazioni: modelli culturali, retoriche pubbliche e pratiche sociali”, questo il titolo del convegno internazionale che si è tenuto dal 6 al 9 aprile a Roma presso l’Università La Sapienza e Roma Tre, organizzato dall’Aisea, Associazione Nazionale degli Antropologi socio-culturali, in collaborazione con l’Osservatorio sul Razzismo e le diversità “M. G. Favara”, sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica. L’obiettivo fondamentale del convegno è consistito nell’esaminare l’articolata fenomenologia delle discriminazioni, avvalendosi di numerosi contributi di ricercatori e specialisti, i quali hanno voluto “fornire elementi di confronto tra il discorso pubblico e la riflessione antropologica ed offrire così un contributo scientificamente fondato per la creazione di nuovi scenari di convivenza e rispetto reciproco”.
La sessione dedicata ai “Generi Discrimina(n)ti”, in particolare, si è svolta presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, e ha ospitato numerosi antropologi. In primo luogo Luca Trappolin, dell’Università di Padova, che ha esposto il progetto Citizens in Diversity: A Four-Nation Study on Homophobia and Fundamental Rights (www.citidive.eu), finanziato ingentemente dal Fundamental Rights and Citizenship Programme dell’Unione Europea per il periodo Gennaio 2010 – Giugno 2011, il quale, diretto dal Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, vede la collaborazione di equipe di sociologi e giuristi italiani, inglesi, sloveni e ungheresi. In particolare, in ambito italiano, il team sociologico ha svolto una serie di interviste individuali e collettive a donne e uomini giovani di diversi orientamenti sessuali al fine di definire in maniera più corretta possibile i concetti di omofobia, di esperienza quotidiana della violenza in ambito pubblico e privato e della discriminazione ai danni di persone omosessuali.
Lo scopo fondamentale del gruppo di ricerca consiste nel discutere sul rapporto di divergenza tra le narrazioni su alcune tematiche da parte di eterosessuali e omosessuali, alla luce del recente progetto lanciato da Arcigay e promosso anche dall’Istat, dal titolo “Lotta all’omofobia e promozione della non discriminazione sui luoghi di lavoro come strumento di inclusione sociale”. Trappolin ha sottolineato come occorra ridefinire ed incrementare la complessità del concetto di rappresentazione omofobica, che, sebbene nei paesi anglosassoni sia già entrato nell’uso comune, in Italia fatica ad essere accettato. Poiché determinati sistemi di rappresentazione e di conoscenza alla base delle pratiche discriminanti sarebbero alla base degli atti di violenza, è fondamentale – ha continuato l’antropologo – concettualizzare l’omofobia come “espressione di una sofferenza e di una violazione espressa da uomini e donne la cui identità di genere è stata forgiata come quella di una minoranza di genere socialmente costruita”. Quindi il contrasto alla violenza contro gay e lesbiche dovrebbe originare da un’adeguata consapevolezza dei suoi meccanismi, in particolare delle diverse categorie di violenza, che vanno da quella percepita, a quella narrata, a quella riconoscibile come tale dalle persone eterosessuali fino a giungere alla violenza simbolica, che costituisce un’inconsapevole riproduzione delle pratiche di violenza psicologica e verbale promosse da parte degli omosessuali e degli eterosessuali. Le interviste svolte hanno il compito di migliorare l’accesso conoscitivo ad una serie di spazi pubblici e privati e ad un complesso di esperienze vissute in prima persona dai soggetti di indagine.
Michela Fusaschi, antropologa della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre, ha esposto il progetto “Il corpo delle altre. Vocabolari della discriminazione e retoriche dell’umanitario”, il quale si propone di riflettere sull’aspetto politico degli interventi umanitari portati avanti recentemente sul corpo delle donne, al fine di discutere il tipo di biolegittimità assunto dai corpi femminili nella vita quotidiana. A tal fine, l’antropologia pubblica si occupa di congiungere le questioni del locale e del globale, per contrastare la visione riduzionista del mondo dei diritti umanitari così come le politiche di genere mainstreaming, che insistono sulla visione subalterna della figura femminile. In Italia, in particolare, sarebbe cambiata negli ultimi anni la concezione del corpo della donna, tramite un’incorporazione dell’immagine sessista maschile del potere da parte delle donne, mentre la modificata percezione della vittima avrebbe provocato la diffusione di un’economia morale di profonda disuguaglianza e reificazione, impedendo lo sviluppo di una figura femminile (e non solo) pienamente cosciente e libera delle proprie azioni e scelte.
Massimiliano Casali, dello Sportello Unico per l’immigrazione, ha trattato della pluralità delle esperienze familiari concrete, che escludono la presenza di un unico modello familiare come socialmente e culturalmente legittimo, mentre permettono di comprendere come la famiglia sia un istituto necessariamente aperto alle differenti trasformazioni sociali e culturali e debba divenire un luogo di affermazione personale invece che di costrizione morale. Da un lato, il recente affrancamento da norme religiose che si è verificato in ambito privato, e dall’altro, la scissione del legame tra famiglia e procreazione, hanno condotto ad una maggiore accettazione dell’omosessualità, anche in ambito pubblico. Al fine di abbattere tutta una serie di barriere comportamentali che impediscono il dialogo tra ‘mondo omosessuale ed eterosessuale’, occorrerebbe – ha continuato Casali – l’estensione della tutela del diritto sulla personalità a quello delle relazioni interpersonali, al fine inoltre di facilitare la trasformazione della genitorialità e dell’intimità in processi riflessivi, modellati sulle scelte responsabili degli individui.
Teresa Biondi, antropologa cinematografica dell’Università di Modena, ha sottolineato il ruolo dell’antropologia filmica nella rappresentazione di dinamiche culturali discriminatorie dal punto di vista dell’identità di genere e sessuale e nella promozione di identità libere e pienamente autonome. In particolare, la studiosa si è soffermata sulla capacità del regista Visconti nell’utilizzare il mezzo filmico per promuovere una cultura dell’emancipazione dalle gabbie sessiste e dogmatiche, al fine di rappresentare realmente come le persone vivono la propria identità sessuale, all’interno di un contesto socio-culturale, quello dell’Italia anni ’50 e ’60, in cui tali tematiche erano molto difficili da affrontare. E’ stata proprio la narrazione della sofferenza e la messa in scena della violenza simbolica il nodo centrale della cinematografia viscontiana, la quale si è trasformata progressivamente in una modalità di racconto di valori umani autentici, che travalicano le differenze sessuali o di genere, abbattendo le stigmatizzazioni e i pregiudizi di una tradizione essenzialmente proibizionista.
L’ultimo intervento, di Mario Pesce, dottorando presso l’Università Roma Tre, si è concentrato attorno agli studi da lui effettuati sui trans sudamericani, specialmente di quelli migrati in Italia, dai quali è nato un documentario ‘Translatina’, riguardante i sogni e le delusioni vissuti dalle ‘immigrate’ latino-americane nel nostro paese. Pesce ha messo in luce come l’assolutizzazione delle differenze di genere uomo/donna deve essere decostruita, al fine di comprendere come l’identità rappresenti una cocostruzione superabile nella vita individuale. A tal proposito, egli ha individuato nell’identità sessuale un elemento stabilito per la persona sin dalla nascita e fissato dai cd ‘normali’. La diversità sessuale si tradurrebbe in un’incapacità di comprensione e di dialogo tra le differenze, e quindi ad una chiusura e marginalizzazione costante del ‘diverso’, considerato potenziale produttore di conflitti sociali in quanto non appartenente ad un genere ben definito e quindi difficile da classificare. Nei trans migranti vi sarebbero poi, due livelli di discriminazione, legati, da un lato, alla labile identità sessuale, e dall’altro, alla condizione di migrante, quindi di non appartenente a nessun luogo.
http://www.deltanews.net/diritti-diversita’-sessuali-il-tema-discusso-a-roma-in-un-convegno-sulle-discriminazioni-4710933.html

LE STELLE INQUIETE: un film su SIMONE WEIL

Le stelle inquiete: film splendido realizzato recentemente da Emanuela Piovano e di cui inserisco qui alcuni link youtube per visualizzarne l'anteprima:
http://www.youtube.com/watch?v=ImGfmKBW6sY
http://www.youtube.com/watch?v=9fdHAebRgp8&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=5utHbb9wqWY&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=ssqmxHg7SZI&feature=related
http://www.youtube.com/watch?v=C8-q0pEsu1k&feature=related

Inserisco anche un articolo che ho pubblicato recentemente sul film su http://www.deltanews.net/:

LE STELLE INQUIETE: SIMONE WEIL TRA PASSIONE E MISTICISMO

Primo film mai realizzato sulla figura di Simone Weil, grande filosofa francese del ‘900, “Le stelle inquiete” è nato da un’idea della regista Emanuela Piovano ed è stato prodotto dalla Kitchenfilm, grazie anche al sostegno del Fondo Economico Europeo. Il film si sofferma su un momento particolare della vita della Weil, i due anni dal 1941 al 1943, periodo durante il quale Simone ha da poco lasciato il suo lavoro da insegnante per sperimentare la catena di montaggio e la vita da operaia. Costretta a lasciare la fabbrica per motivi di salute, decide di accettare l’invito di Gustave Thibon, piccolo proprietario terriero che ha una tenuta agricola vicino Marsiglia, dove vive insieme alla moglie Yvette. Sullo sfondo della seconda Guerra Mondiale e dell’instaurazione del regime di Vichy, si narra l’incontro tra la filosofa, un ambiente socio-culturale molto diverso da quello in cui ella era abituata a vivere e a lavorare, a contatto con la natura, con delle condizioni economiche e di vita molto più agiate rispetto a quelle in cui imperversavano le città francesi ed inglesi, e con una famiglia di piccoli proprietari terrieri che ha stabilito una relazione con i propri braccianti di tipo diverso rispetto alle interazioni di conflitto e di scontro esistenti nelle grandi fabbriche urbane.
La personalità di Simone Weil si rivela in tutta la sua complessità: ‘innamorata del mondo’ come lei si definisce, desiderosa di ‘trasformare costantemente l’azione in pensiero’, la donna rifiuta tutti gli agi offerti dalla famiglia in cui è ospitata, al fine di conoscere meglio la realtà dei contadini con cui viene a contatto, il tipo di macchinari utilizzati, i rapporti tra i braccianti e i proprietari, e l’importanza di un sano contatto con la natura. Si esplora la costante ricerca di sé da parte della Weil, e di come le sue idee, la sua visione del mondo influenzino la vita di Gustave Thibon. In un primo momento restio ad ascoltare le riflessioni della filosofa, successivamente la mente della donna esercita un influsso molto potente sulla sua esistenza e sui suoi pensieri, tanto da mettere in discussione alcune credenze precedentemente possedute dall’uomo. Si scopre, mano a mano, come Gustave fosse un autodidatta, che si era dedicato per qualche tempo alla scrittura di pensieri filosofici, che però non aveva mai divulgato, perché ‘ non hanno alcuna correlazione con la vita che faccio’, come confessa lui stesso. Nonostante l’iniziale innamoramento di Gustave per Simone, la donna, dalla personalità profondamente mistica e desiderosa di sublimare il corpo a favore dello spirito e di un amore universale nei confronti dell’umanità e del mondo naturale circostante, Simone se ne va dalla casa dei Thibon per riprendere le sue attività di scrittrice e di militante politica. Nella parte finale del film, la parziale riconciliazione tra Simone, Yvette e Gustave conduce Simone, sebbene l’esistenza di forti divergenze di pensiero con Gustave – l’interesse per il bene comune che stava particolarmente a cuore a Simone si scontra con il profondo individualismo ed egoismo dell’uomo – a lasciare parte dei suoi scritti a Thibon, che poi ne trarrà una delle più importanti opere della filosofa, ‘L’ombra e la grazia’.
Già a partire dal titolo, la regista ha voluto indagare, in questo film, il ruolo dei valori nelle scelte esistenziali dell’individuo. I valori, intesi dalla Piovano, come stelle ‘inquiete’, simboleggiano dei punti di riferimento costanti nella vita quotidiana della persona, che però non devono essere concepiti come gabbie, a differenza delle ideologie. La stessa personalità della Weil riflette un’ambiguità costante nella relazione con il mondo circostante: immersione amorosa e distacco contemplativo, pensiero e azione, amore ed elevazione mistica. I problemi della realtà storico-sociale assillano la vita di Simone, la cui prima preoccupazione è cercare di migliorare l’esistenza delle persone più povere, disagiate ed alienate, in modo da rifondare idealmente una società migliore. Il suo progetto di ricostruzione della Francia avrebbe previsto una riforma totale del lavoro e delle industrie, in modo da mettere al centro i bisogni dei lavoratori, non il dominio dei proprietari sui braccianti. Ma la sua figura, come si nota nel film, non è né compresa né accettata da molti intellettuali o borghesi dell’epoca, che o la esaltano come idolo irraggiungibile, oppure la considerano una ‘povera professoressa di filosofia ebrea’, con nessuna possibilità di successo.
La bellezza estetica del film si nota nel sapiente uso della luce realizzato dal direttore della fotografia Raoul Torresi, e dall’utilizzo di tecniche di ripresa digitali, che mostrano una straordinaria bellezza del paesaggio del sud della Francia, mediante un’equilibrata miscela di scene fisse e in movimento. La natura è uno dei protagonisti di questo film. La capacità della regista di alternare immagini a dialoghi ha reso l’opera un adeguato stimolo di riflessione sulla personalità della Weil e sul suo rapporto molto peculiare con la realtà che la circondava.
Episodio molto suggestivo raccontato dalla regista prima della proiezione del film, la Piovano ha incontrato Sylvie Weil, la nipote di Simone, la quale sembra non aver mai nutrito sentimenti positivi nei confronti di sua zia, continuamente oscurata dalla sua figura. Eppure la visione del film sembra aver riconciliato idealmente le due donne, come se l’opera cinematografica avesse potuto trasformare in carne e ossa una personalità spesso soltanto letta e studiata, ma mai veramente vissuta. Ma ‘in ogni passione avvengono prodigi’ come ha scritto Simone Weil, e anche in questo caso, la riflessione della filosofa si è rivelata veritiera.

Simone Weil tra pacifismo e rivoluzione (di Monica Sanfilippo)

Figura eccezionale del Novecento, Simone Weil come un “angelo” laico vive profondamente la realtà del suo tempo, l’ingiustizia sociale, la battaglia al totalitarismo, la ricerca spirituale, la libertà.
Nata a Parigi all’inizio del secolo (1909) da una famiglia ebrea benestante morirà a soli trentaquattro anni in Inghilterra, ad Ashford nel Kent (1943), dopo aver lasciato la Francia a causa dell’invasione tedesca.
Eppure, in un arco così breve di vita, Simone è in grado di testimoniare alle generazioni future un messaggio straordinario di acutezza intellettuale e sensibilità mistica allo stesso tempo. Dapprima, alunna modello al liceo parigino Henri IV, assorbe lo spirito critico del professor Alain; poi, ella stessa, come docente, insegna filosofia nelle scuole della capitale, lavoro dal quale si congeda per entrare in fabbrica e nella realtà della classe operaia; in prima linea sul fronte popolare spagnolo allo scoppio della guerra civile, si dichiara intransigente pacifista contro l’avvento del nazismo e l’imminente minaccia della seconda guerra mondiale.
Solitaria nelle sue battaglie e fortemente determinata, la giovane donna scrive incessantemente la sua riflessione attorno a punti chiave del pensiero occidentale: la società e l’individuo, la guerra e la pace, le leggi e la libertà, la religione e la chiesa. Eppure il pensiero della Weil «non può essere oggetto di studio: troppo viva, troppo eternamente giovane e violenta per questo. […] E’ una forza catalizzatrice, una risorsa, una corrente di energia, che a un certo punto può attraversare la nostra vita e costringerci a certi interrogativi essenziali. […] E, da un tale incontro, non si esce indenni» (G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta 1991).
Avviciniamo Simone grazie alla mole di articoli, saggi, lettere e Quaderni, molti dei quali pubblicati postumi come gli appunti ai Cahiers, in tre volumi, a cura del fratello André e della sua amica Simone Pètrement; un pensiero multiforme, ma coerente nella precisa consapevolezza di sperimentare prima di affermare.
Così circa il "lavoro" la Weil vuole innanzitutto conoscerne l’essenza, passando attraverso l’esperienza diretta della fabbrica e dell’alienazione che la macchina produce. «E non pensare – scrive all’amica Alberatine Thévenon – che (questo) abbia provocato in me movimenti di rivolta. No, al contrario ha provocato ciò che meno mi sarei aspettata da me – la docilità. Una docilità da bestia da soma rassegnata. Mi sembrava essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini» (S. Weil, La condizione operaia 1952). La dignità degli uomini e delle donne nelle fabbriche, si convince Simone, è umiliata a tal punto che essi non sono più consapevoli dei diritti inalienabili. Per lo stesso motivo non sono in grado di rivendicarli né saprebbero cogliere appieno i frutti di una rivoluzione sociale: quest’ultima, pertanto, va preparata attraverso una missione volta al risveglio delle coscienze dal sonno del totalitarismo capitalistico.
La conversione al pacifismo, dapprima radicale di fronte al pericolo dell’ennesima “guerra di Troia” per l’Europa, vacilla sotto la prepotenza del nazifascismo che avanza indiscusso. «Dal giorno in cui, dopo una lunga lotta interiore, ho deciso in me stessa che, malgrado le mie inclinazioni pacifiste, il primo dei miei doveri diveniva ai miei occhi perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo, da quel giorno non ho mai desistito; è stato il momento dell’entrata di Hitler a Praga…Forse ho assunto tale atteggiamento troppo tardi» (S. Weil, Scritti sulla guerra 2005).
E quando Parigi è dichiarata città aperta, la famiglia Weil è costretta a lasciare la Francia.
La sua crisi del pacifismo ha in realtà motivazioni più profonde legate ad un riesame della cultura occidentale, dell’idolatria dei concetti che vuole sostituire alla "vera" religione. Per questo non partecipare alla guerra, adesso ch’è già iniziata, significherebbe commettere un male superiore, poiché ciò che è richiesto è di combattere per un profondo rinnovamento spirituale.
La risposta ultima di Simone è, pertanto, religiosa, poiché Questa guerra – titola un suo saggio – è una guerra di religioni. Azione, religione e filosofia sono un unicum per la donna che si schiera contro il nazismo e che da Marsiglia è costretta a imbarcarsi prima per New York, poi per Londra.
Dagli anni della svolta mistica, quando nel ’38 recitando intensamente una poesia di George Hebert, Love, avverte l’incontro con Cristo – “è disceso e mi ha presa”, scrive – rivolge l’attenzione ai testi religiosi più importanti dell’umanità, dal Libro dei morti egiziano alle Upanishad, dalla Bibbia alla Bhagavadgita. Un’attenzione spirituale la cui verità è assoluta per Simone, una verità "altra" che ha bisogno di un’espressione “moderna e occidentale” per essere compresa e maturata.

Bibliografia
G. Fiori, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991-2009

S. Weil, Sulla guerra. Scritti 1933-1953, Net, Milano 2005
F. Restaino, S. Weil: impegno e ascesi, in «Storia della filosofia» di N. Abbagnano, vol. IV, La filosofia contemporanea, tomo II, Utet, Torino 1994, pp. 50-62

http://spazisonori.splinder.com/tag/simone+weil

LE DONNE PROTAGONISTE DELLE I-REVOLUTIONS NEL MONDO ARABO

(Roma) Le rivolte popolari nel mondo arabo che stanno mettendo in crisi i presupposti autoritari e l’univocità della rappresentazione socio-mediatica della popolazione da parte di media governativi vedono il ruolo fondamentale dei nuovi strumenti di comunicazione  e di informazione. Le donne, da sempre considerate soggetti inferiori e incapaci di esprimere le proprie idee nei regimi musulmani, hanno fatto sentire alta la propria voce, mettendosi a capo di cortei, partecipando a manifestazioni di piazza, fronteggiando le forze militari e fornendo un apporto fondamentale alla documentazione e alla controinformazione mediante l’utilizzo dei media digitali. Questi i temi al centro del convegno dal titolo “La mimosa e il gelsomino. Le donne e il web nelle piazze del mondo arabo”, che si è tenuto presso il Rettorato dell’Università Roma Tre il 16 marzo scorso. Blog, newsletter, social networks (soprattutto Facebook e Twitter) sono divenuti i protagonisti della prima i-revolution come l’ha ribattezzata, tra le altre, la giornalista tunisina Sondès Ben Khalifa. Per la prima volta sembra che le donne del mondo arabo possano costituire un modello di forza e coraggio da imitare per numerosi paesi occidentali, sebbene occorra eliminare le stigmatizzazioni ed evitare gli esotismi, presenti nella stessa denominazione della rivoluzione, ‘la rivoluzione del gelsomino’. Tale appellativo non è stato infatti coniato dalle donne arabe, bensì dalla controparte occidentale.
Ad introdurre il convegno è stata Francesca Brezzi, presidente dell’Osservatorio interuniversitario sugli studi di genere, la quale ha messo in luce come l’orizzontalità della rete telematica possa promuovere un agire comunicativo più autenticamente democratico, sebbene ci sia il pericolo di perdere la dimensione fisica delle donne a causa dell’anonimato, che condurrebbe alla scomparsa della concretezza incarnata del soggetto femminile. Le donne arabe – ha continuato la Brezzi – hanno dimostrato di saper rappresentare una vera e propria identità di frontiera nelle diverse rivoluzioni nord-africane, facendosi portatrici di contenuti nuovi, anche nei confronti dell’Occidente.
Loredana Cornero, responsabile della relazioni internazionali della Rai e presidente della Commissione Donne COPEAM, ha rimarcato la scarsa conoscenza da parte delle donne occidentali delle donne della sponda sud del Mediterraneo. Queste ultime, però, soprattutto in questo periodo, hanno visto aumentare la propria visibilità mediatica grazie all’utilizzo attivo di Facebook come forum di vivace ed accesa discussione. Non privilegiato in quanto puro strumento di intrattenimento e di svago, i social networks sono divenuti supporti essenziali per fare rete e per trattare di temi politici, rappresentando un contraltare e un aiuto fondamentale alle piazze, che, nel mondo arabo, sono ritornate ad essere effettivi luoghi di confronto, di apprendimento e di scambio di valori democratici.
Le donne arabe possono costituire anche autentici volani di cultura e di formazione, come ha messo in evidenza Francesca Maria Corrao, professoressa ordinaria di lingua e cultura araba all’Università Luiss, che ha discusso delle molteplici forme di comunicazione ed educazione anche multimediale messe in campo da importanti figure femminili nel mondo arabo. Per esempio sono state create delle case editrici, che sono implementate anche online, per agevolare la pubblicazione di libri scritti da autrici arabe. Oppure vengono create e sono già nate numerose associazioni finalizzate alla formazione di donne in modo tale che esse possano vendere i prodotti da loro realizzati (soprattutto artigianato ma non solo) anche per via telematica. Di conseguenza, l’uso dei blog da parte di tali figure femminili non appare affatto strano se lo si confronta con un processo di emancipazione e di alfabetizzazione digitale che va avanti ormai da qualche decennio.
Per dimostrare l’importanza dei blogger egiziani nella rivoluzione iniziata il 25 gennaio scorso, la documentarista italo-siriana Carolina Popolani ha voluto realizzare un documentario, Cairo Downtown promosso dalla società Atabulo, nata nel 2009 per la produzione di reportages e documentari nell’area Euromediterranea. La Popolani, nel corso del suo intervento, ha mostrato tre estratti di interviste realizzate con donne egiziane provenienti da parti differenti del paese, le quali, pur nelle diversità culturali, politiche e religiose, hanno sostenuto l’importanza dei blog e dei social networks quali utili strumenti di condivisione delle idee, di partecipazione diretta alle lotte per la rivendicazione dei diritti essenziali dell’essere umano contro la dittatura vigente. Al contrario dell’Egitto, però, altri paesi nord-africani, in primo luogo la Libia, sono purtroppo rimasti assenti dal dibattito democratico sui new media. Anche qui, però, esistono realtà molto eterogenee: esiste, per esempio – ha continuato la Popolani – una zona, il Siwa, al confine con il deserto libico, in cui le donne, seppure costrette a rinunciare ad un’occupazione dopo il matrimonio, hanno introdotto innovative strategie di condivisione e di comunicazione. La necessità di conciliare tradizionale vita familiare e passione lavorativa ha condotto un gruppo di 20 donne ad implementare un corso di formazione e di alfabetizzazione informatica, finalizzato all’acquisizione di competenze nella creazione e gestione di siti web.
Ma non solo i social networks hanno favorito la rivoluzione digitale nei paesi arabi, anche le televisioni satellitari, comparse negli ultimi anni, hanno costituito un valido strumento per fornire un’informazione alternativa rispetto a quella fornita dalle televisioni pubbliche, come ha messo in luce Iman Sabbah, giornalista di Rainews. Si sarebbe passati, gradualmente, da un’informazione totalmente incentrata sul lavoro del governo e della classe dirigente dei vari paesi arabi a notizie che raccontano anche la realtà della popolazione. Al Jazeeira, ad esempio, fornendo una copertura informativa 24h24 in diretta, ha inaugurato un cambiamento nella costruzione delle scalette televisive, influenzando anche i canali governativi. In questo processo di emancipazione mediatica, un ruolo di inibizione sarebbe stato svolto dal post-11 settembre, che avrebbe gettato un’ombra, secondo la Sabbah, sulla popolazione araba, creando un muro impenetrabile tra occidente e mondo musulmano. Ma l’avvento dei social networks, e soprattutto il caro vita legato all’aumento sproporzionato dei prezzi dei beni di prima necessità, avrebbe favorito lo scoppio della rivoluzione, pubblicizzata e resa ancor più visibile dalla copertura fornita dai media occidentali e dalla presenza di inviati e di corrispondenti soprattutto arabi che hanno intervistato i partecipanti alle manifestazioni e hanno trasmesso direttamente ai canali americani – come la CNN- e inglesi, come la BBC. Nel corso di queste rivoluzioni, la stessa percezione della donna araba è stata profondamente modificata, e le donne hanno assunto una funzione fondamentale nello spazio pubblico e nelle questioni politiche dei propri paesi di appartenenza.
Un ruolo molto significativo è stato svolto anche dalle donne tunisine, come ha messo in evidenza Sondès Ben Khalifa, giornalista di Radio Tunisienne, che ha parlato della diversa condizione delle donne tunisine rispetto a quelle degli altri paesi arabi. L’acquisizione dal 1956 di diritti pari a quelli degli uomini, la presenza di un’istruzione pubblica gratuita fino alle scuole superiori, hanno consentito, o per lo meno, non inibito totalmente, la presa di consapevolezza della libertà di espressione alle donne tunisine, che, però, di fronte ad un regime politico notevolmente oppressivo, hanno deciso di scendere in piazza per contrastare l’integralismo e la violenza estrema, battendosi per un processo di emancipazione totale e di elezioni libere. La lotta per la libertà di espressione ha visto, anche qui, un preponderante uso delle tecnologie informatiche da parte delle donne, sebbene la rivoluzione tunisina si stesse preparando da anni, e si qualificasse con un stampo politico ed economico, proponendo una separazione tra stato e religione musulmana, unica garanzia contro la regressione nell’emancipazione umana – maschile e femminile.
Un’altra testimonianza riguardante la rivoluzione tunisina è stata portata da Feten Fradi, esponente della Comunità Tunisina a Roma e responsabile delle relazioni con il mondo arabo presso la COPEAM, la quale ha espresso la sua sorpresa e quella della comunità tunisina italiana di fronte alla rivoluzione, che lei ha definito ‘spontaneamente maturata dai giovani tunisini’, e motivata da una volontà delle donne di consolidare i diritti acquisiti precedentemente e di migliorare la loro posizione sociale, di fronte all’avanzata di partiti conservatori in seno al governo.
Interessante è stata anche la testimonianza di Yasemin Taskin, giornalista del quotidiano turco Sabah, che ha trattato della condizione delle donne turche, le quali, sebbene vivano in uno stato proclamato laico, non godano di una posizione di elevato potere all’interno di una società peraltro per il 99% musulmana. Inoltre, nonostante la grande attenzione in politica estera mostrata dalla Turchia nei confronti dei paesi vicini, il processo di inclusione del paese all’interno dell’UE ha conosciuto attualmente una fase di stallo. Quindi, ha aggiunto la Taskin, parlare di ‘modello turco’ come esempio da seguire per l’emancipazione degli altri paesi arabi è un po’ rischioso, data la profonda eterogeneità di tradizioni e di condizioni di vita esistenti.

Elisa Strozzi